Di recente sono riuscito ad andare al cinema a vedere Il sol dell’avvenire di Moretti. Ovviamente, per via della prole, ormai purtroppo riesco ad andare al cinema solamente per pochi film e registi prendendomi il giorno di ferie solo per questo.

Mi è piaciuto molto, ma sono di parte perché mi piacciono sempre tutti i film di Moretti. Lascio un piccolo resoconto di Fabio Ferzetti per L’Espresso.

Il sol dell’avvenire, Nanni Moretti racconta la nostra storia. Con il cuore in mano

È tornato. Dopo il passo laterale di “Tre piani”, Nanni Moretti torna al suo mondo. Alle sue nevrosi, alle canzoni italiane, alla mania di controllo che soffoca eros e pathos, alle crociate un po’ donchisciottesche contro tutto ciò che non va, le donne che portano i sabot, i registi che girano atrocità solo per fare spettacolo, le piattaforme che «i nostri film si vedono in 190 Paesi», e quindi giù regole e imposizioni («Nella sua sceneggiatura manca un momento whatafuck!», scena geniale). Solo che ormai Nanni va per i 70, non si chiama più Michele Apicella ma proprio Giovanni, e intorno tutto è cambiato. Tutto tranne lui. Ma cambiare significa vivere o adattarsi per sopravvivere?

“Il sol dell’avvenire”, titolo antifrastico, alimenta il dubbio cavalcando una macchina narrativa allegramente scombinata.

C’è un regista (Moretti) che sta facendo un film su un redattore dell’Unità (Silvio Orlando) durante la rivolta di Budapest del ‘56 (impossibile non pensare all’Ucraina, anche se il progetto è precedente), e un circo che arriva a Roma in quei giorni proprio dall’Ungheria (il circo Budavari, come il temibile pallanuotista di “Palombella rossa”).

C’è la moglie del regista (Margherita Buy), sua produttrice, che per la prima volta produce anche il film di un altro ed è un po’ stufa del marito e delle sue nevrosi (per non parlare della figlia, ma si sa che le figlie a un certo punto fanno di testa loro). C’è un’attrice (Barbora Bobulova), che in nome di Cassavetes pensa di saperla più lunga del regista. E molto altro.

Ma il set, da Fellini in poi sempre metafora della vita, è il luogo del controllo solo in apparenza. Così quel regista in lotta con un mondo sempre più irriconoscibile, da un lato si aggrappa a rituali e feticci (la coperta di “Sogni d’oro”) che per molti di noi ormai fanno album di famiglia; dall’altro, non potendo cambiare la propria storia personale, inizia a chiedersi se non può correggere almeno un po’, dichiaratamente, la Storia collettiva.

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