Lo streaming artificiale è in realtà un problema che Spotify e servizi simili conoscono da ben prima che si cominciasse a dibattere più insistentemente di intelligenze artificiali, o che nascessero software che rendessero molto facile creare canzoni. E anche prima che le intelligenze artificiali lo rendessero tanto immediato, c’erano altri strumenti che permettevano di gonfiare gli ascolti e che venivano sfruttati dai musicisti per aumentare il loro pubblico e le loro entrate.

Recentemente però i volumi sono aumentati: Tony Rigg, che insegna management musicale all’University of Central Lancashire, nel Regno Unito, ha definito «un’inondazione» l’aumento del volume di contenuti sintetici musicali nella piattaforma, che ha reso l’utilizzo di bot per l’ascolto ancora più efficace. Il meccanismo è simile a quello che permette di acquisire like e follower finti sui social network: chi pubblica canzoni artificiali poi paga delle aziende terze che utilizzano bot per simulare l’ascolto continuo delle tracce e quindi aumentare il compenso per lo streaming che ricevono da Spotify.