Da amante di Rapa Nui, dove spero di riuscire a tornarci prima o poi, trovo sempre affascinanti le teorie intorno a questa civilità.

Sempre più ricerche smentiscono l’ipotesi di un collasso causato dallo uno sviluppo eccessivo e non sostenibile. E descrivono invece una piccola popolazione, resiliente e sviluppatasi per oltre un millennio in equilibrio con un ambiente ostile

L’isola di Pasqua, o Rapa Nui come era conosciuta nella lingua dei nativi, affascina da sempre archeologi, scienziati e curiosi di tutto il mondo. Celebre per i suoi colossali Moai, i faccioni di pietra che costellano il panorama altrimenti brullo dell’isola, e per la storia, a tratti misteriosa, della loro costruzione e della civiltà che li ha realizzati. Attorno alle vicende della popolazione che abitava Rapa Nui, la “grande isola”, all’arrivo dei primi esploratori europei (avvenuto una domenica di Pasqua del 1722), in effetti, si è creata una sorta di faida scientifica. Da un lato c’è la narrazione, ancora dominante, di una società avanzata e prospera che si è autodistrutta ben prima di entrare in contatto con l’occidente “civilizzato”, i suoi vizi e le sue malattie (che hanno di certo contribuito a darle il colpo finale), collassando a causa dello sfruttamento sconsiderato delle poche risorse disponibili sull’isola. E dall’altro, un piccolo ma agguerrito gruppo di archeologi secondo cui, per quanto affascinante e istruttiva, la parabola dell’eco-suicidio degli abitanti di Rapa Nui non è altro che una favola.

Tra i più prolifici scienziati di questo secondo gruppo c’è sicuramente Carl Lipo, Antropologo della Binghamton University di New York, che da anni ormai pubblica studi che puntano a dimostrare che la popolazione dell’isola di Pasqua prima dell’arrivo degli europei fosse in assoluto equilibrio con il proprio ambiente. Nel suo ultimo lavoro, pubblicato di recente su Science Advances, Lipo e il suo team hanno utilizzato immagini satellitari e machine learning per ricostruire l’estensione delle infrastrutture agricole presenti sull’isola di Pasqua nel lontano passato, confermando – una volta di più – che con ogni probabilità erano perfettamente adattate per sostenere una piccola popolazione di qualche migliaio di abitanti, simile quindi per dimensioni a quella trovata dai primi europei all’arrivo sull’isola.

L’eco-suicidio degli abitanti di Rapa Nui

Il più prominente sostenitore del collasso ecologico dell’isola di Pasqua è probabilmente il noto scienziato e divulgatore Jared Diamond, che nel libro del 2005 “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere” ha formulato la teoria dell’ecocidio della società Rapa Nui. La storia sarebbe questa: le circa 2.500 persone che abitavano l’isola all’arrivo dei primi esploratori europei non erano che i rimasugli, in continuo declino, di un popolo ben più avanzato e prospero, che in passato vantava una popolazione di circa 15mila abitanti. All’apice della sua civiltà il popolo Rapa Nui aveva iniziato ad erigere i giganteschi Moai che ancora costellano l’isola, divenendone ossessionato (per ragioni mai ancora chiarite del tutto) al punto da disboscare completamente la piccola isola per reperire il materiale necessario ad erigere e trasportare le statue.

Tra le prove citate da Diamonds ci sono ovviamente il grande numero di Muai presenti sull’isola, che lasciano immaginare la presenza di una grande forza lavoro, e analisi paleoarcheologiche che dimostrano come all’arrivo dei primi colonizzatori provenienti dalla Polinesia (tra il 300 e il 1.200 d.C.) l’isola ospitasse diverse specie di alberi ad alto fusto e almeno sei di uccelli terricoli, tutte estinte all’arrivo dei primi europei. Un mix di esplosione demografica ed eccessivo sfruttamento delle risorse ambientali, cambiamenti climatici e l’ossessione per i Moai e la loro costruzione avrebbero quindi generato un circolo vizioso, che avrebbe portato un po’ alla volta all’estinzione della fauna locale, alla scomparsa di alberi con cui costruire barche da pesca, all’erosione del suolo e alla conseguente riduzione delle capacità agricole.

Una storia scritta nella pietra

Il punto di partenza delle ricerche di Lipo e dei colleghi dell’Università di Bimghamton è che i cambiamenti che hanno interessato l’ambiente dell’isola di Pasqua nell’arco dell’ultimo millennio – innegabili – non devono necessariamente essere stati causa di un collasso nella civiltà dell’isola. È dimostrato, ad esempio, che intorno al 1500 d.C. è avvenuto un cambiamento nell’intensità della el Niño-Oscillazione Meridionale, il fenomeno climatico legato all’alternanza dei periodi di el Niño e la Niña. Le condizioni climatiche sull’isola di Pasqua sono diventate di conseguenza più aride, e questo ha certamente influito sulla flora locale.

Non è detto però che questi cambiamenti ambientali abbiano necessariamente portato al collasso di una civiltà. In uno studio del 2021, Lipo e colleghi avevano proposto un nuovo metodo statistico per valutare come fosse cambiata nei secoli la dimensione della popolazione che abitava l’isola di Pasqua, a partire dalle analisi del radiocabonio e dai dati paleoarcheologici disponibili. Uno studio piuttosto tecnico, che comunque sembrava indicare che la popolazione dell’isola fosse aumentata, lentamente e costantemente, dall’arrivo dei primi colonizzatori fino all’incontro con gli esploratori europei. La scomparsa degli alberi ad alto fusto (soprattutto le palme, che si sospettava rappresentassero una fonte di cibo essenziale per gli abitanti dell’isola) sarebbe quindi stata causata unicamente da fenomeni climatici e naturali, e non avrebbe prodotto un’erosione catastrofica del suolo, anche grazie all’adozione di un nuovo metodo di “pacciamatura litica” (l’utilizzo di sassi di varie dimensioni per proteggere e fertilizzare il terreno coltivato) che avrebbe migliorato notevolmente le loro capacità agricole.

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