Vi giro la newsletter di oggi di Culture Wars a cura di Francesco Marino che ho trovato interessante.

«Se questo tizio sul volo United Airlines 2140 da Houston a New York è tuo marito, stasera probabilmente dormirà con una certa Katy. TikTok, fai la tua magia».

La scena è piuttosto semplice da immaginare. Un uomo e una donna, su un aereo. Un paio di drink, una chiacchierata. Accanto, una persona ascolta, si appassiona a quelle parole, a quelle storie.

Ricostruisce una vicenda di tradimento, una moglie e una figlia lasciate a casa per passare un po’ di tempo con un’altra donna. Decide che quel fatto va raccontato: registra un video, scrive una lunga caption, pubblica su TikTok.

Il video – ora cancellato – diventa virale. Ne segue un altro, da oltre un milione di visualizzazioni. Nei commenti, le persone iniziano a cercare la moglie tradita: e ovviamente la trovano, dopo poco tempo. La taggano: espongono il suo nome, la sua storia, la sua vita privata a milioni di persone. Probabilmente lo fanno a fin di bene, con l’idea di partecipare a una sorta di giustizia collettiva.

È la magia di TikTok: in sostanza, l’illusione di avere a disposizione una realtà che possa intrattenerci. Una realtà con cui possiamo interagire, che possiamo condizionare, in cui possiamo recitare la parte di spettatori protagonisti. Guardando contenuti, commentando, producendo contenuti a nostra volta.

È ciò che un bell’articolo di BuzzFeed News chiama «Panopticontent»: una sorta di sistema di sorveglianza collettivo, a cui partecipiamo con lo scopo di costruire un’identità digitale sui social network. Tutto è un contenuto: quindi, tutti sono personaggi che popolano il mondo del mio intrattenimento.

Ci sono due riflessioni da fare, a partire da una premessa: qualunque sia lo scopo, non è mai sensato – ed è un reato – filmare qualcuno e pubblicarne le immagini su internet senza il suo consenso. Con questo terreno comune, le questioni in campo sono almeno un paio, come dicevo. La prima è di piattaforma, di una tecnologia che abilità una nuova modalità di relazione con il mondo. TikTok, lo sappiamo, ha trasformato i social media in spazi basati sugli interessi, sui contenuti: non importa chi tu sia, l’algoritmo può far arrivare il tuo post a ogni latitudine.

È l’istituzionalizzazione di quello che per lungo tempo abbiamo chiamato collasso del contesto. Che è una cosa nata su Twitter, con quella formula del main character, usata per identificare il tweet che diventava virale, che usciva dalla bolla per entrare nella colonna dei trend.

Ecco, il collasso del contesto è la possibilità che una comunicazione immaginata per un pubblico e una situazione specifica esca da quelle precondizioni precise, per arrivare alla portata di tutti. Succede tutto il tempo, e succedeva anche prima di TikTok. Ma la piattaforma cinese ha istituzionalizzato questa conseguenza inattesa.

L‘ha resa una feature, anzi: ogni contenuto può – o meglio: deve – avere la possibilità di arrivare a tutti gli utenti. E questo moltiplica le conseguenze della diffusione di un video girato all’insaputa della persona ripresa: non è più un’esposizione a un gruppo più o meno ristretto di persone; è finire sui giornali dopo un milione di visualizzazioni.

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