Centotrent’anni fa, contro il far west dei giornali di Pulitzer e Hearst, due giuristi definirono la privacy. Anche noi l’abbiamo codificata e poi buttata nel cestino. Una perfetta alleanza di mercato fra produttore, distributore e consumatore

Nel 1890 uscì sull’Harward Law Review un saggio a firma di due giuristi, Luis Brandeis e Samuel Warren, intitolato “The Right to Privacy”, il diritto alla privacy. Warren partiva da una questione privata e non la dissimulava: il matrimonio della figlia di cui i giornali avevano dato conto con la sfrenatezza cui erano soliti, e in particolare riportando il giudizio molto brusco dato nel corso della cerimonia da uno dei parenti della sposa su uno dei parenti dello sposo, o viceversa, non ricordo più, ma non è importante. Brandeis e Warren teorizzarono il diritto “To Be Let Alone”, di essere lasciati soli, o meglio: lasciati in pace. E più precisamente il diritto non soltanto “di impedire che della propria vita privata si offra un ritratto non veritiero, ma di impedire che questo ritratto sia in alcun modo eseguito”. Cioè: non era importante che il giudizio fosse stato pronunciato oppure no, ma che un fatto privato fosse stato reso pubblico.

Il loro problema – cito da “Il diritto nell’età dell’informazione” di Ugo Pagallo – è che la giurisprudenza si era fin lì occupata di tutelare i cittadini da atti violenti contro la persona e i suoi beni, e un articolo non era equiparabile a una randellata in testa. Anzi: solo la randellata in testa era atto violento. Ma per Brandeis e Warren i diritti non sono codificati una volta per sempre: se ne aggiungono di nuovi col mutare delle sensibilità e l’evolvere della tecnologia. Un articolo di giornale, in tempi in cui di giornali se ne vendevano a tonnellate, era contundente quanto e più di un randello.

Uno degli aspetti divertenti, diciamo così, è che l’articolo sulla figlia di Warren era uscito sul New York World, di proprietà di Joseph Pulitzer, a cui dobbiamo la più antica scuola di giornalismo, alla Columbia University, e il più importante premio giornalistico. Molto meritorio, senz’altro, ma l’eccellente opinione attuale su Pulitzer non era condivisa dai contemporanei, perché in quegli anni di fine Ottocento se le dava di santa ragione col grande rivale William Randolph Hearst – ispiratore di Orson Welles per Quarto potere. Hearst era l’editore del New York Journal, e contendeva a Pulitzer il primato in fatto di vendite, un duello combattuto con le armi del sensazionalismo e del cinismo e su un terreno ancora senza regole. Mi tocca aggiungere un ultimo dettaglio, molto illuminante su Pulitzer: editore geniale, aveva trasformato i giornali imponendo uno stile narrativo ispirato alla prosa di Charles Dickens, di modo che l’informazione fosse pure intrattenimento, e fosse attraente anche per la popolazione meno istruita. Finché l’intrattenimento non cominciò a prevalere sull’informazione. E lì arriva il saggio di Brandeis e Warren.

Un centinaio di anni più tardi, siamo nell’Italia del 1997, si approva il “Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”. Prima di indugiare in qualche dettaglio, vorrei ricordare le esibite commozioni, lo scorso 30 maggio, al novantesimo anniversario della nascita di Stefano Rodotà che, da garante della privacy, in quel 1997 fu protagonista nell’adozione del codice scritto con l’Ordine dei giornalisti. “Ah, quanto ci manchi”, è stato scritto da bravi giornalisti in memoria di Rodotà, morto il 23 giugno del 2017. Ma che si deve pensare di un giornalismo nostalgico di Rodotà mentre ignora o contravviene quotidianamente quanto è stato scritto da Rodotà e dall’Ordine dei giornalisti – che intanto fischietta – ventisei anni fa?

All’articolo 5 si legge: “Il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti”. All’articolo 6: “La divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile anche in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”.

Secondo voi – propongo un solo esempio – pubblicare le chat, in riquadri festosamente colorati, fra una donna morta ammazzata e il suo assassino, è rubricabile sotto il titolo “essenzialità dell’informazione”? E pubblicarle era “indispensabile anche in ragione dell’originalità del fatto”? Voglio dire: informarci sugli scambi WhatsApp fra Giulia e Alessandro poche ore prima che Alessandro ammazzasse Giulia, aggiunge qualche cosa a un racconto giustificato dall’interesse pubblico? Violare un atto così intimo, così privato, su cui una povera donna uccisa a coltellate più nulla può eccepire, è informazione essenziale?

CONTINUA SU HUFFPOST

  • @milmulnir@lemmy.ml
    link
    fedilink
    Italiano
    111 months ago

    Esprimo il mio pensiero e premetto che non so ferrato su fatti storici, professionali o che concernono la deontologia nel campo del giornalismo. Da quando l’Italia è diventata una Repubblica e, di fatto, uno stato di diritto abbiamo delegato il giudizio dei cittadini alla magistratura e al governo. IMHO ogni fatto che concerne la vita privata delle persone deve rimanere giurisdizione dello stato perchè, in teoria, è colui che è imparziale. Ovviamente si può parlare della qualunque siccome siamo in uno stato di diritto e ognuno può divulgare il proprio pensiero attraverso i mezzi a nostra disposizione; ma nel momento in cui si va a toccare la sfera privata di una persona bisogna limitare la diffusione di determinati materiali (ad esempio, chat private di messaggistica, cronologie di ricerca e visione di siti ecc…) perché inevitabilmente la suddetta persona che finisce sotto l’occhio dei media verrà messo alla gogna mediatica, sempre. Non è giusto sottoporre una persona, fosse anche il peggiore dei criminali, al giudizio del popolo perché dovremmo abbandonarlo per progredire come popolazione, perché il suddetto giudizio del popolo è quello che più si avvicina (anche se verbalmente) a quello degli animali; quest’ultimo spesso è feroce, estremo. Della serie “Ammazzatelo… Rinchiudetelo e buttate via la chiave…”. Anche se queste parole non sono riportare esplicitamente negli articoli di giornale o nei post sui vari social, nella mia esperienza, c’è sempre una vena di violenza o di estremismo anche se sottesa.