Due anni dopo la ricerca cinese di un nuovo ordine mediatico mondiale, ‘Reporters Without Borders’ (RSF) pubblica ‘The Great Leap Backwards of Journalism in China’, un rapporto che rivela la portata della campagna di repressione del regime contro il diritto all’informazione.

Dieci punti chiave:

  • Giornalisti obbligati a farsi portavoce del partito Per ricevere e rinnovare le loro schede stampa, i giornalisti dovranno presto sottoporsi a una formazione annuale di 90 ore in parte incentrata sul “pensiero” del presidente Xi Jinping. I giornalisti sono già tenuti a scaricare lo ‘Studio Xi’, rafforzare l’applicazione di propaganda paese che può raccogliere i loro dati personali.

  • Il più grande sequestratore di giornalisti del mondo Almeno 127 giornalisti (professionisti e non professionisti) sono attualmente detenuti dal regime. Il semplice atto di indagare su un argomento “sensibile” o pubblicare informazioni censurate può portare a anni di detenzione in carceri antigieniche, dove maltrattamenti possono portare alla morte.

  • Lettere non gradite L’intimidazione della Cina nei confronti dei giornalisti stranieri, basata sulla sorveglianza e sul ricatto dei visti, ha costretto 18 di loro a lasciare il paese nel 2020. Gui Minhai, Yang Hengjun e Cheng Lei, tre giornalisti stranieri di origine cinese, sono ora detenuti con l’accusa di spionaggio.

  • Covid-19 come scusa per un aumento della repressione Almeno dieci giornalisti e commentatori online sono stati arrestati nel 2020 per il semplice atto di informare il pubblico sulla crisi di Covid-19 a Wuhan. Ad oggi, due di loro, Zhang Zhan e Fang Bin, sono ancora detenuti.

  • Blocco dei media nello Xinjiang Dal 2016, in nome della “lotta al terrorismo”, il regime di Pechino conduce una campagna violenta contro gli uiguri. Attualmente sono detenuti settantuno giornalisti uiguri, tra cui più della metà dei giornalisti detenuti in Cina.

  • Proliferazione delle “linee rosse” Il numero di argomenti tabù continua ad aumentare. Non solo quelli tipicamente considerati “sensibili” - come il Tibet, Taiwan o la corruzione - sono soggetti a censura, ma anche disastri naturali, il movimento #MeToo o persino il riconoscimento dei professionisti della salute durante la crisi Covid-19.

  • Giornalisti di Hong Kong minacciati dalla legge sulla sicurezza nazionale Volutamente vaga, la legge sulla sicurezza nazionale, imposta l’anno scorso a Hong Kong dalla Cina, da allora è servita come pretesto per la repressione di almeno 12 giornalisti e difensori della libertà di stampa, tra cui il fondatore di Apple Daily Jimmy Lai, tutti condannati all’ergastolo.

  • Carrie Lam come burattino del regime di Pechino Per compiacere il regime cinese, Carrie Lam, amministratore delegato di Hong Kong, ha chiuso con la forza l’ultimo media mainstream indipendente, Apple Daily, e sta censurando il gruppo di media pubblici RTHK (Radio Television Hong Kong).

  • CGTN continua a diffondere propaganda in tutto il mondo Il gruppo audiovisivo cinese di proprietà statale CGTN continua a trasmettere propaganda di regime in tutto il mondo, nonostante abbia perso la sua licenza nel Regno Unito nel 2021 dopo aver mandato in onda più auto-confessioni, comprese quelle dell’editore Gui Minhai e dell’ex giornalista Peter Humphrey.

-Ambasciate utilizzate come strumento contro la libertà di informazione Le missioni diplomatiche cinesi sono anche una fonte di pressione contro la libertà di informazione nelle democrazie. Infame per le sue diatribe contro i media, l’ambasciatore cinese a Parigi, Lu Shaye, è un recidivo che regolarmente insulta e attacca i giornalisti indipendenti.

In un precedente rapporto, pubblicato nel 2019 e intitolato La ricerca cinese di un nuovo ordine mondiale dei media, RSF ha dimostrato come Pechino cerca di porre fine al ruolo del giornalismo e invece lo rende uno strumento al servizio della propaganda di stato.

La Repubblica Popolare Cinese è al 177º posto su 180 nell’RSF World Press Freedom Index del 2021, solo due punti sopra la Corea del Nord. La regione amministrativa speciale di Hong Kong, un tempo bastione della libertà di stampa, è scivolata dal 18º posto, dopo la creazione dell’indice nel 2002, all’80º posto nel 2021.

[Traduzione automatica con correzioni minime. Articolo in inglese.]